Quotidiano Sanità: L’atto medico, il comma 566, l’orto degli altri. E il “Consumatore”?

Gentile Direttore,
l’interessante pezzo di Ivan Cavicchi sull’atto medico e l’orto degli altri, suggerisce una metafora efficace solo per alcuni versi mentre ha il grandissimo pregio di curarsi dell’Utente, che purtroppo non pare essere chiaramente al centro del dibattito tra le professioni della salute. Mi permetto di provare a contribuire all’analisi e alle conclusioni di Cavicchi con alcune riflessioni che partono dall’area riabilitativa.

In primis, il comma 566 ed il dibattito sulle competenze non riguardano (solo) il rapporto fra professioni medica ed infermieristica. Nonostante siano numericamente le due categorie più rappresentate, sarebbe un errore fermarsi alle relazioni fra queste due professioni, soprattutto perché l’analisi mancherebbe di elementi fondanti del mutato quadro di relazioni, in realtà in gran parte da costruire. Ebbene, parliamo delle professioni sanitarie di area riabilitativa, parliamo del Fisioterapista per parlare di quanto sicuramente conosciuto. Il dato di partenza è la sopravvivenza del SSN ed in realtà della globalità del sistema-salute nel nostro Paese: è ormai assodato che dobbiamo cambiare le modalità organizzative dell’offerta di salute, pena l’estinzione del nostro sistema universalistico. E questo è il tema della sostenibilità.

Altro dato da cui avviare analisi e discussione è il fatto (perché è un fatto) che la definizione di conoscenze e competenze fatta più di 20 fa, tra le professioni della salute, non è più attuale. Ci sono stati appunto vent’anni (che, nel nostro ambito, pesano di più che sul calendario generale, vista la velocità dell’innovazione scientifica e tecnologica richiesta) di cambiamenti “epocali” che non cito per non offendere alcuno, tanto sono noti.

Che si debba, quindi, parlare di ridistribuzione delle competenze e di competenze aggiuntive è anche questo un fatto. I due “fatti”, messi insieme, chiariscono la strada da percorrere: l’obiettivo è la maggiore sostenibilità del sistema, lo strumento è la ridefinizione delle relazioni interprofessionali nel rispetto reciproco degli ambiti di competenza. Al riguardo la chiave di lettura proposta e che pare il vero oggetto del dibattito è l’appropriatezza della risposta sanitaria al bisogno, analizzata in termini di coerenza fra il livello di complessità della risposta (presa in carico) e quello del bisogno di salute.

Il tema è stato presentato, fino a poco tempo fa, attraverso il paradigma della “intensità di cure” ma, anche grazie al contributo delle professioni di area riabilitativa, lo si è sostituito con quello della “complessità” a queste più vicino e adeguato. Si tratta, in fondo, di fare una sorta di “spending review” basata sull’appropriatezza clinica e organizzativa, cioè sulla scienza. Insomma quello che tutti ci dicono di fare ed in questo bisogna ringraziare per l’attenzione sul tema organizzazioni come il GIMBE di Nino Cartabellotta ed il fenomeno “Slow Medicine” che invita tutti i professionisti a “choose wisely”, eliminando dal proprio “bagaglio professionale” quelle attività ormai ritenute inefficaci (e quindi dannose, ndr).
Non si tratta, per rifermi all’esempio di Cavicchi, solo di “orti e ortolani” ma si tratta di dare al “Consumatore” (l’Utente) quello di cui ha davvero bisogno e non un grammo di ortaggi in più, oltre che un ortaggio che gli risulti “indigesto”. Il tutto cercando anche di ridurre la filiera tra l’ortolano e l’Utente finale. Nel periodo delle vacche grasse abbiamo -sbagliando- offerto la nostra risposta più complessa indistintamente ad ogni tipo di bisogno, semplice o complesso che fosse: il Medico specialista (e spesso più di uno).

Le professioni sanitarie hanno da sempre criticato tale atteggiamento, nonostante da alcune parti si tentasse di ammantare tale catastrofico approccio con una maggiore tutela per il Paziente (di cui non ha bisogno), in realtà innalzando a livelli insostenibili i costi del sistema ma anche quelli per lo stesso Utente, allungando le liste d’attesa, moltiplicando gli interventi sanitari ed in tal modo aumentando in maniera ingiustificata il rischio clinico (direttamente collegato ad ogni intervento e che sempre va posto in correlazione con l’utilità dello stesso). Ora però, che le vacche sono estremamente magre, non ci sono più alibi ed i rilievi sulla duplicazione delle prestazioni, spesso inutili, si sposano con la necessità di snellire il sistema. Sono gli Utenti che ce lo chiedono: percorsi chiari, facili, veloci, pianificati, evidence-based, dagli esiti prevedibili e dai tempi -nei limiti del possibile-definiti.

C’è un ulteriore contributo che, da Fisioterapista, voglio offrire alla discussione: non si tratta solo di “ridistribursi le competenze”, bensì di capire quale intervento sia più utile per quella specifica situazione di salute e quale sia il professionista più adeguato per erogarlo. Non è vero, come sostenuto dai conservatori più arcigni, che non si possa differenziare il bisogno “semplice” da quello “complesso”; basti citare, ad esempio (ma non è il solo), il “Piano Regionale della Riabilitazione” della Regione FVG che, già dal 2005, organizzava la propria risposta in ambito riabilitativo in questi termini, offrendo la possibilità ai Medici specialisti di dedicarsi con maggior tempo e attenzione ai bisogni nei confronti dei quali il loro intervento è effettivamente utile e necessario. Tempo che va ricavato eliminando, ça va sans dire, gli interventi in risposta a bisogni che non necessitano di tali prestazioni; tempo che va ricavato accordando, come detto, complessità del bisogno con complessità della risposta. La ridistribuzione delle competenze va intesa (anche) in questo senso: identificare ciò in cui si rappresenta una necessità e valorizzarlo, eliminando quello in cui non si è -davvero- utili. Per questo motivo la metafora degli orticelli può essere, almeno per quanto riguarda la riabilitazione, quasi ribaltata.

Non è il Fisioterapista che aspira ad acquisire ambiti di competenze del Medico, piuttosto l’obiettivo del sistema, alla ricerca di appropriatezza e sostenibilità, dovrebbe essere “liberare” l’attività del Fisioterapista da interventi medico-specialistici definiti “da regolamento” come necessari tout-court ma che la scienza non giustifica. Provo a spiegarmi meglio: il sistema-salute, alla ricerca di appropriatezza e sostenibilità, non ha tante altre possibilità, oltre al superamento di certe logiche e prassi amministrative che ancora oggi prevedono ridondanti passaggi dal medico specialista anche in presenza di diagnosi definite e/o quadri clinici stabilizzati. Tali inutili passaggi nulla hanno a che fare con i principi di governo clinico, ma quasi sempre hanno l’effetto di ritardare l’intervento del Fisioterapista a danno della Persona (condizionando l’intero processo di recupero in modo a volte anche importante), senza aggiungere elementi utili ai fini della pianificazione del trattamento fisioterapico. Invece, esperienze di accesso diretto all’intervento del Fisioterapista sono attive in diverse Regioni e ancor maggiormente all’estero, dove ad esempio, hanno migliorato la performance anche nei pronto soccorsi, e -va ribadito- garantendo la sicurezza dell’Utente. La Fisioterapia è competenza esclusiva e ambito di titolarità del Fisioterapista, che la pratica autonomamente e in collaborazione con altri professionisti sanitari. Sostenere, come inopinatamente si fa nella proposta di Legge sull’”atto medico”, che ogni intervento sanitario sia proprio del solo Medico che lo pratica direttamente o ne delega la pratica ad altro professionista, non ha alcuna base giuridica e nessun senso logico.

Su questo è intervenuta recentemente la Corte di cassazione, sezione lavoro, con sua sentenza 13 marzo 2015, n. 5080, sulla quale ha appropriatamente argomentato Luca Benci proprio sulle pagine di QS: oggi nessuno può affermare che “spetta tutto al Medico”, anzi è vero il contrario, cioè che interventi medici negli ambiti di titolarità di altri professionisti devono essere identificati come un’ingerenza, quanto meno.
Guardando poi cosa succede nella quotidiana realtà dei Servizi sanitari non si può tacere su situazioni ad esempio in cui ad un Utente con, mettiamo, una distorsione di caviglia, dopo aver ricevuto la sua diagnosi medica, viene posto, in molti casi nelle strutture sanitarie, il limite di un’ulteriore visita medica specialistica e di una prescrizione di fisioterapia che rappresentano, senza ombra di dubbio, una duplicazione.
La cosa è ancora più evidente in percorsi di cura che sono standardizzabili ed in cui, una volta avviati, proprio non si capisce a cosa possa servire un’ulteriore valutazione per fare qualcosa che si è già definito debba essere fatto. Per non parlare poi della libera professione che, come tale, è libera ed autonoma ed invece qualcuno -forse proprio per questo- vorrebbe ingabbiare.

C’è stato chi, in questo dibattito sulle competenze, all’indomani della pubblicazione della Legge di Stabilità che include l’ormai “famigerato” comma 566, ha provato a valorizzarlo con l’hashtag “#lavoltabuona”; viste le condizioni del “moribondo” SSN, sarà il caso che lo sia davvero.
Temo non avremo altre occasioni, la Grecia insegna.

Mimmo D’Erasmo
Vice-Presidente Associazione Italiana Fisioterapisti

 

fonte: http://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=27058

Torna in alto