Stroke e riabilitazione: lo studio di Silvia Salvalaggio sull’attenzione cognitiva premiato da AIFI

Lo studio di Silvia Salvalaggio esplora il ruolo dell’attenzione cognitiva nel recupero motorio post-ictus, proponendo un nuovo approccio metodologico alla prognosi riabilitativa.

Una nuova prospettiva per comprendere il recupero motorio post-ictus: è questo il cuore della ricerca di Silvia Salvalaggio, vincitrice del bando Donne nella Scienza – Early Career Researcher promosso da AIFI, che le ha assegnato un Travel Grant per la partecipazione al V International Scientific Congress AIFI in programma a Milano il 28 e 29 novembre.

Il progetto, dal titolo Modeling Upper Limb Rehabilitation-Induced Recovery after Stroke: The Role of Attention as a Clinical Confounder, presenta i risultati preliminari di uno studio osservazionale condotto su pazienti colpiti da ictus. Analizzando i fattori associati al recupero motorio dopo la riabilitazione, lo studio evidenzia il ruolo cruciale della dose di Fisioterapia e di alcuni fattori cognitivi iniziali, come l’attenzione, nella risposta riabilitativa. Una proposta metodologica rigorosa e strutturata per gli studi prognostici clinici, che apre la strada a nuove strategie riabilitative integrate.

Attualmente Postdoc Clinical Fellow presso la Champalimaud Foundation di Lisbona nel gruppo del Prof. John Krakauer, Silvia Salvalaggio ha conseguito nel 2024 il Dottorato Industriale in Neuroscienze tra l’IRCCS San Camillo (Venezia) e il Padova Neuroscience Center (Università di Padova). L’abbiamo intervistata per approfondire la sua visione sul futuro della Fisioterapia, il ruolo delle donne nella ricerca e il significato di questo riconoscimento.

Cosa ti ha spinto a intraprendere una carriera nella ricerca in Fisioterapia?

Fin dall’inizio della mia carriera ho capito che, come professionisti sanitari, possiamo avere modi diretti e indiretti di aiutare i nostri pazienti. Nel corso di una carriera clinica possiamo assistere centinaia, se non migliaia, di persone, ma con la ricerca questi numeri possono aumentare esponenzialmente in modo indiretto. Ogni clinico si pone quotidianamente delle domande, e le risposte spesso arrivano da studi condotti da altri. Ho scelto di dedicare la mia vita professionale a portare il mio contributo, anche indiretto, cercando risposte ai quesiti clinici che affrontiamo ogni giorno. Con il tempo ho capito che ottenere un dottorato significa anche assumersi la responsabilità di contribuire al sapere scientifico come impegno verso la società e il mondo intero.

Che ruolo pensi abbia la presenza femminile nel settore della Fisioterapia per ispirare nuove generazioni di ricercatrici?

È triste dirlo, ma credo che oggi possiamo parlare di tutto questo solo perché abbiamo avuto la fortuna di nascere in una parte di mondo dove è possibile. Nella storia della medicina ci sono state figure femminili rivoluzionarie che hanno aperto la strada, dimostrando che anche per noi era possibile. Avere questa possibilità oggi è una responsabilità verso chi non ce l’ha mai avuta. All’Università di Padova, dove ho studiato, si è laureata la prima donna al mondo, Elena Lucrezia Cornaro Piscopia. Solo alla fine del mio dottorato ho scoperto di essere stata la prima fisioterapista donna in 800 anni di storia dell’Ateneo a conseguire un dottorato di ricerca: un segnale importante in un contesto ancora medico-centrico.
Le donne, quando collaborano, hanno potenzialità straordinarie. È fondamentale costruire ambienti professionali basati sulla cooperazione, non sulla competizione, con l’obiettivo di far crescere la professione e supportare chi verrà dopo di noi — per le colleghe, per le studentesse, per chi non ha avuto opportunità e, soprattutto, per i pazienti.

Quali sfide e opportunità vedi per la ricerca in Fisioterapia nei prossimi anni?

La prima sfida è culturale e metodologica: dobbiamo rafforzare la nostra preparazione sul metodo scientifico, imparare a formulare ipotesi solide e utilizzare strumenti adeguati. La scienza non è solo nel risultato, ma nel processo. I social, spesso, trasmettono solo l’aspetto performativo della ricerca, tralasciando la parte più importante: il rigore del metodo.
Serve anche un cambio di paradigma: dobbiamo trattare l’intervento riabilitativo come un “farmaco”, studiandone posologia, tempistiche, effetti biologici e differenze di genere. Per essere competitivi a livello internazionale, servono studi multicentrici e una integrazione strutturata tra ricercatori e clinici, che devono dialogare come parti di un’unica filiera.
Non dobbiamo temere la complessità né rincorrere soluzioni facili: il comportamento motorio umano è complesso, e solo accettando questa complessità potremo offrire cure efficaci. Anche gli studi che non confermano le ipotesi iniziali sono fondamentali per la crescita scientifica.
L’opportunità più grande? Gli studenti. Dobbiamo investire su di loro, trasmettere strumenti solidi fin dall’università e prepararli a un confronto aperto, maturo e multidisciplinare.

Cosa significa per te questo riconoscimento da parte di AIFI?

Ha un valore particolare perché premia un progetto nato cinque anni fa nella mia mente e cresciuto con colleghi che hanno creduto in me. Abbiamo superato tante difficoltà e costruito qualcosa di nuovo e significativo nel campo della prognosi post-ictus. Questo premio è il segnale che la comunità scientifica è pronta a cambiare prospettiva, anche metodologicamente. Sono grata ad AIFI per aver riconosciuto e valorizzato questo lavoro, dandogli visibilità e uno spazio dedicato.

Come pensi che AIFI possa sostenere ulteriormente le giovani ricercatrici?

Queste iniziative legate alla Giornata Internazionale delle Donne e delle Ragazze nella Scienza sono già un segnale forte. Sarebbe utile rafforzare i canali di dialogo con le istituzioni per garantire più tutele a chi desidera costruire una famiglia, e più stabilità professionale per chi lavora nella ricerca. Solo così sarà possibile coltivare il talento senza costringerlo a scegliere tra carriera e vita personale.

Torna in alto